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Ci vorrebbe un taccuino anche per i ricordi. Invece i ricordi sono collegati fra loro a frammenti. Influenze involontarie, incroci visivi, un album di fotografie mentali sparse alla rinfusa. Un minuscolo Robert Capa svogliato che immortala particelle di vita e tutto diventa un libro giallo con le ultime pagine strappate. Una visione ipertricotica del mondo, stralunata, piccola e grande insieme. Mica tutto. Come L’inferno comincia nel giardino di Lethemcon le sue streghe erotiche, le merende negate, le incursioni nel mondo della morte, il ritorno periodico alla vita dopo aver combattuto in un giocoso e ripetitivo universo parallelo popolato da cani robot. Colloco i ricordi nei piani superiori, come in un palazzo di vetro sopra al fermacapelli. Pezzi e strati di reminiscenze catapultati sotto casa. Se ripenso a cose passate la mia bocca scompare, solo dopo aver ricollocato ogni organo nella giusta posizione mi ritrovo e mi riconosco, ma con movimenti sempre troppo lenti. Costipazioni e lampi improvvisi, pecore con pelli di lupo in corsa in vicoli non miei. Il vociare tremante e approssimativo degli interrogativi sfiancanti. Il suono delle monete sporche, tutte in fila nella mia tasca. Il colore delle pillole ostili, avanzate nell’armadietto dei tredici anni. Cartoline noiose da un posto lontano, così lontano da essere solo un puntino. Conclusioni sedute su uno sgabello con le gambe fragili. Mi guardo da fuori e mi odio con la compostezza delle suore in lettura.

TRA LIMITI ESISTENZIALI TRACCIATI DAL GESSO E DICOTOMIE MEMORIALI

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